Nella mostra organizzata a Perugia dal titolo “Drawing as concept “ ho presentato i disegni preparatori con le relative note di due lavori recenti: Cratere #1 (presentato nell’ambito del ciclo di vetrine di ME.SIA S.PACE intitolato “Connessioni”) e Cratere#2 (un lavoro, tuttora in corso di realizzazione, incentrato sul confronto tra un’opera di Nanni Valentini, sul tema del cratere e una mia elaborazione dello stesso tema). Si tratta, in effetti, di elaborati che possono essere definiti come progetti. Nel seguito li presenteró, smontati e riassemblati, cercando di mettere in evidenza il metodo e le finalità del mio lavoro. Senza, ovviamente, tentare di dare alcun senso generale non avendo intenzione di teorizzare. Il primo lavoro, Cratere#1, è tutto in due foto. Quella che segue, che raccoglie diversi stimoli che hanno contribuito alla formazione dell'idea. I temi sono:
La seconda foto ritrae un disegno associato a Pensiero partenopeo: un componimento che ho scritto durante lo studio di Cratere#1, che ho già pubblicato e che qui riporto nuovamente per completezza. Pensiero partenopeo Vengo da Napoli, Città associata al Vesuvio nell’immaginario collettivo ma plasmata forse anche di più dal super-vulcano dei Campi Flegrei, che non sembra un vulcano ma lo è, eccome. Dentro ci vivono 600.000 persone. Alle falde del Vesuvio sono quasi 700.000. In mezzo la città. È strano, a pensarci, che tanta gente viva a stretto contatto con un vulcano attivo. Strano, ma così frequente in giro per il mondo. Fatalismo? Incoscienza? Sospensione della memoria? Forse semplice necessità. I vulcani sono lì che vivono in un loro tempo dilatato e inconcepibile, per noi umani, un tempo, per noi, paragonabile all’immensità, immensità che ce li fa apparire immutabili, fermi mentre tutto intorno la vita brulica; vita quotidiana di spostamenti veloci nei luoghi consueti, la nostra vita fatta di macchine, schermi e aperitivi all'aperto. Solo ogni tanto, un leggero tremore della terra ferma il tempo e il sangue nelle vene. Ogni anno vado una settimana a Vulcano, nelle isole Eolie. Lungo la costa erosa dal mare e dal vento la falesia mostra le rocce stratificate che raccontano di successive eruzioni e di migliaia, centinaia di migliaia di anni, e io faccio il bagno in quel mare subito blu profondo e così, sospeso a oltre mille metri dal fondo marino, mi guardo intorno e, anno dopo anno, sembra tutto fermo, immutabile; ma poi mi immergo in acque attraversate da flussi bollenti che risalgono dal fondale; osservo la cima del monte, gialla di zolfo e fumante di gas mefitici; e no, non è tutto fermo e immutabile; solo sospeso. Lavoro con le rocce vulcaniche per rivestire i miei cocci: le raccolgo, le macino, le mescolo tra loro e con altri materiali; le fondo. Faccio smalti da ceramica. La strada porta verso il vulcano. Tutto introno la vita brulica; ma ogni tanto, in un leggero tremore, avverto il respiro profondo dell’immensità. Infine, il Cratere#1 è la sintesi di tutto quanto sopra: idee, fatti, persone e oggetti che hanno girato tra le carte e nella mia testa. Anche questo lavoro è stato già pubblicato qui nel sito e a breve lo sarà nel catalogo che raccoglie tutti i lavori presentati nel ciclo di vetrine di Me.Sia S.Pace dal titolo "Connessioni"
Pensiero partenopeo
Vengo da Napoli, Città associata al Vesuvio nell’immaginario collettivo ma plasmata forse anche di più dal super-vulcano dei Campi Flegrei, che non sembra un vulcano ma lo è, eccome. Dentro ci vivono 600.000 persone. Alle falde del Vesuvio sono quasi 700.000. In mezzo la città. È strano, a pensarci, che tanta gente viva a stretto contatto con un vulcano attivo. Strano, ma così frequente in giro per il mondo. Fatalismo? Incoscienza? Sospensione della memoria? Forse semplice necessità. I vulcani sono lì che vivono in un loro tempo dilatato e inconcepibile, per noi umani, un tempo, per noi, paragonabile all’immensità, immensità che ce li fa apparire immutabili, fermi mentre tutto intorno la vita brulica; vita quotidiana di spostamenti veloci e luoghi consueti, la nostra vita fatta di macchine, schermi e aperitivi all'aperto. Solo ogni tanto, un leggero tremore della terra ferma il tempo e il sangue nelle vene. Ogni anno vado una settimana a Vulcano, nelle isole Eolie. Lungo la costa erosa dal mare e dal vento la falesia mostra le rocce stratificate che raccontano di successive eruzioni e di migliaia, centinaia di migliaia di anni, e io faccio il bagno in quel mare subito blu profondo e così, sospeso a oltre mille metri dal fondo marino, mi guardo intorno e, anno dopo anno, sembra tutto fermo, immutabile; ma poi mi immergo in acque attraversate da flussi bollenti che risalgono dal fondale; osservo la cima del monte, gialla di zolfo e fumante di gas mefitici; e no, non è tutto fermo e immutabile; solo sospeso. Lavoro con le rocce vulcaniche per rivestire i miei cocci: le raccolgo, le macino, le mescolo tra loro e con altri materiali; le fondo. Faccio smalti da ceramica. La strada porta verso il vulcano. Tutto introno la vita brulica; ma ogni tanto, in un leggero tremore, avverto il respiro profondo dell’immensità. Solo qualche giorno fa ho appreso della scomparsa di Phil Rogers. Lo considero uno dei miei maestri. Qui una piccola yunomi che feci qualche anno fa studiando il suo lavoro.
Mi piace ricordarlo con le sue parole riprese da una recente intervista: “I think it’s about what a potter injects into a piece. A lot of today’s boring, shallow, urban tablewares, usually in porcelain and with pale, uninteresting glazes, lack any sense of adventure. We potters have little to do these days other than express something in our work. People don’t NEED our pots; metal and plastic are cheaper and readily available. They buy them because they want to see an artistic expression, to feel a connection with the maker. They want to see that a potter has endeavoured to find a new avenue of exploration and succeeded by daring to fail. Safe, banal, boring work is better made in a factory and contributes little to our world of clay.” Il 3 e 4 agosto, di lunedì e martedì, ho cotto; era tanto che non accendevo il forno; tutt'intorno è cresciuta erba alta e una piccola edera spuntava dai mattoni della base e quando l'ho aperto per caricarlo, dentro c'era un nido di vespe vuoto, forse risalente all'estate scorsa, Il tempo fa queste cose mentre noi siamo distratti. Insomma, ho fatto un forno; un forno pieno solo di pezzi rivestiti di smalto shino, la versione occidentale dello smalto shino.
Quindi, ho scelto quattro diverse ricette, tutte nell'area del traditional shino, escludendo per il momento altre tipologie come il cosiddetto carbon trap o l'high alumina. Ovviamente per traditional shino si intende sempre la versione occidentale dell'originale giapponese. Nella scelta, fatta tra le decine di ricette proposte da vari ceramisti e studiosi, ho cercato di cogliere i diversi aspetti che mi interessava studiare: - avere una base semplice; - valutare ricette più complesse; - studiare gli effetti dei diversi tipi di feldspato (feldspato Na, sienite nefelina, spodumene)i); - studiare gli effetti di viveri tipi di argilla (ball clay, caolino, terracotta); - verificare le interazioni con diversi tipi e colori del corpo sottostante; Infine, ho condotto la cottura secondo una specifica scheda, peculiare per questo tipo di smalto, che differisce da quella che adotto solitamente. Un passo alla volta cercherò, nei prossimi post di raccontare cosa è uscito da questo forno. Intanto, le foto di alcuni dei pezzi di questa infornata sono pubblicate sul profilo Instagram di Cono9 (profilo gestito, come detto in precedente post, da Amarvicio). Sono più di sue mesi che non scrivo ma ho lavorato;
ho prodotto pezzi nuovi, oltre alle mie ciotole e ai piatti, ho realizzato vasi e bottiglie di diverse dimensioni, ho fatto delle tazzine di porcellana a colaggio, ho iniziato a utilizzare la porcellana come ingobbio sul grès; mi sono divertito, insomma. Ho studiato i lavori di Katherine Pleydell-Bouverie, di Daniel Rhodes, di Lisa Hammond, di Rosanjin e Nik Collins e Giorgio Morandi e Anne Franchetti e altri che ora non mi vengono in mente - mi perdoneranno e li citerò un'altra volta.. Ho osservato, disegnato, lavorato al tornio; il foglio di disegni che ho pubblicato nel post precedente, per esempio, contiene diversi di questi pezzi, altri sono schizzati su altri fogli e mi piace vedere il processo nelle diverse fasi perché così tutto sembra avere un senso. Non so ... non sono sicuro di riuscire a trasmettere cosa intendo; è qualcosa di simile alle tappe di un viaggio e forse, proprio per questo, ha un senso solo per me. Chissà ... Comunque non sono ancora la capolinea, adesso ci sono la smaltatura e la cottura, anzi, le cotture, perché per cuocere tutto ci vorranno tre infornate, credo. E almeno una di queste sarà, per me, una vera novità, una scheda di cottura nuova per smalti nuovi - ne parlerò. Devo prepararmi agli inevitabili fallimenti, soprattutto per gli smalti nuovi; è un passaggio obbligato, è la sperimentazione ma mi piace e non conosco altro maniera per arrivare a comprendere le cose che mi interessano. Quindi, si, ho scritto poco, ma ho lavorato e adesso ho molto materiale di cui parlare, indipendentemente da come verranno fuori i nuovi pezzi. Quasi indipendentemente ... Nel suo piccolo manuale sulla tecnica del tornio, "Throwing Post", Phil Rogers dedica un capitolo sul progetto o, più in generale, sull'obiettivo che un ceramista si propone nel momento in cui siede al tornio. Parla della necessità di lavorare avendo il più possibile chiaro in mente cosa si vuole fare, di conoscere gli elementi di base che riguardano la ceramica funzionale, regole che magari si vogliono tradire ma che è necessario conoscere; dell'importanza di non imitare la produzione industriale. Spiega quanto aiuti avere l'abitudine di tenere un quaderno di schizzi (anche se non si è buoni disegnatori) dove appuntare idee, spunti ricavati da pezzi che ci piacciono o anche da forme naturali che incontriamo per caso. Infine parla dello stile personale e di quanto ognuno di noi, apprese le basi tecniche e studiato più possibile altri artisti e artigiani, sia in grado, quasi naturalmente, di tirare fuori anche solo imitando opere altrui. Basta un segno, l'attaccatura di un manico, un disegno appena schizzato con l'ossido o il tipo di smalto per rendere l'oggetto il nostro pezzo, quello che ci identifica. La sintesi di questo discorso, che a me pare illuminate nella sua semplicità credo di poterla estrarre da un'unica frase che, tradotta, dice più o meno questo: "Gli oggetti di ceramica fatti a mano devono essere letti come un libro e la storia che raccontano parla dei materiali di cui sono fatti e del carattere di chi li ha foggiati". Primo Levi era un chimico.
Nel suo libro "Il sistema periodico" gli elementi chimici diventano, nelle mani dello scrittore, strumenti per osservare il mondo e la vita. Uno dei racconti è ispirato dal Potassio. In estrema sintesi, durante un esperimento che prevedeva la distillazione del benzene, il chimico Levi avrebbe dovuto utilizzare il sodio che, però, non era disponibile. Decide, allora, di sostituirlo col potassio; in fondo, pensava, si tratta di due metalli considerati gemelli. Tra le altre similitudini, tutti e due, sodio e potassio, reagiscono con aria e acqua. Il potassio lo fa in maniera più vivace. A fine lavoro, il giovane Levi, dopo aver rimosso i residui del processo dall’ampolla di vetro è andato a lavarla. Come l'acqua è entrata nel collo dell'ampolla c’è stata una piccola esplosione, per fortuna senza conseguenze a parte le tende della finestra del laboratorio andate a fuoco. Il fatto è che nell'ampolla era rimasta una minuscola particella di potassio che, reagendo al contatto con l’acqua, aveva fatto infiammare i vapori di benzene. Levi conclude così il suo racconto: “... occorre diffidare del quasi uguale (il sodio è quasi uguale al potassio: ma col sodio non sarebbe successo nulla), del praticamente identico … Le differenze possono essere piccole, ma portare a conseguenze radicalmente diverse … il mestiere del chimico consiste in buona parte nel guardarsi da queste differenze, nel conoscerle da vicino, nel prevederne gli effetti. Non solo il mestiere del chimico.” Il fatto che si parli di sodio e potassio non poteva non attirare la mia attenzione visto che questi due elementi caratterizzano diversi materiali che compongono gli smalti ceramici; su tutti, i feldspati: feldspato di potassio e feldspato di sodio. La morale che ne traggo, però, non riguarda i due elementi in se ma il fatto che ogni singolo passo all’interno del processo produttivo ha conseguenze, anche notevoli, sul risultato finale. Spesso, anche piccole differenze iniziali comportano grandi differenze alla fine del lavoro. Poiché i rischi nella produzione della ceramica sono, generalmente, minori di quelli presenti nei processi chimici e dando per scontato che un ceramista ne abbia contezza, l'invito non è a diffidare ma a provare ad avvicinarsi il più possibile ai materiali che si utilizzano cercando di comprenderne la natura e le differenze. "Il sistema periodico" di Primo Levi è una piacevole lettura. Il feldspato di sodio da risultati diversi da quello di potassio. Recentemente ho scritto un post su Anni Albers; sono solo un paio di citazioni che ho trovato in rete e che mi piaceva condividere con i lettori del blog.
In realtà si tratta di uno di quei personaggi attraverso i quali si può osservare un'intera fetta del XX secolo. Albers era la discendete di una ricca famiglia tedesca di religione ebraica. Si è formata alla Bauhaus negli anni venti. Sembra che volesse studiare altro, l'arte del vetro, per esempio, ma all'epoca, anche in luoghi culturalmente aperti e avanzati come la Bauhaus, interi campi di studio erano preclusi alle donne. Quindi è stata dirottata sulla tessitura. Ma, come spesso capita alle personalità dotate di talento, tenacia, intelligenza, i limiti diventano opportunità. I tessuti di Anni Albers sono spesso considerati alla stregua di opere pittoriche; la sua tecnica contiene qualcosa di architettonico e ingegneristico. La sua carriera culmina con una personale al MoMA. Si è andata a riprendere, in qualche modo, tutto ciò che le era stato negato. In rete c'è materiale sufficiente per chi volesse approfondire. Per me ne vale la pena. Qui aggiungo il fatto che suo marito era Josef Albers (Bottrop 1888 - New Haven 1976). Formatosi anche lui alla Bauhaus, scuola nella quale fu anche professore, fuggì negli Stati Uniti con la moglie nel 1933 a causa del nazismo. Pittore e designer ha concluso la sua carriera accademica come direttore del dipartimento di Grafica e Design dell'Università di Yale. E' il primo artista vivente a cui sia stata dedicata una retrospettiva al Metropolitan Museum of Art di New York, nel 1971. Ecco, queste brevi, sintetiche note biografiche sono la scusa per introdurre un testo di Josef: "Interazioni del colore - Esercizi per imparare a vedere". Si tratta di un testo datato 1963, sintesi del lavoro didattico di Josef Albers e proprio per questo ne mantiene la struttura: un vero e proprio manuale di esercizi ed esperimenti pratici volti a fornire gli elementi per comprendere i colori e le loro interazioni e, quindi, a sviluppare quella sensibilità per la luce e i colori che gli studi teorici sull'ottica e sui sistemi cromatici non possono fornire. A oltre cinquant'anni dalla sua pubblicazione il testo mantiene tutta la sua validità. Lee Krasner ovvero la riscoperta di un'artista del '900 Qualche tempo fa, l'8 ottobre, è uscito un articolo sul sito “Artsy” che raccoglie brani di diverse interviste rilasciate dalla pittrice espressionista Lee Krasner (1908-1984) negli ultimi venti anni di vita. Si parla dell'importanza di perseveranza, spontaneità, fallimento e rischio. L’articolo è strutturato in tre blocchi: #1 sulla necessità di lottare per imporsi e ottenere il proprio spazio. Nel suo caso gli ostacoli sono stati il sessismo imperante anche nel mondo dell’arte nella prima parte del XX secolo – il suo insegnante di disegno, per farle un “complimento”, le disse che le sue opere erano talmente belle che non si direbbe che siano state fatte da una donna – L’enorme ombra del marito, il pittore Jackson Pollock e la difficoltà che gli artisti astratti americani incontrarono nella prima metà del ‘900 nell’imporsi all’attenzione dei “guardiani del mondo dell'arte”. #2 sull’importanza del cambiamento o, come diceva lei stessa, della rottura. Mi ritrovo a lavorare per un certo periodo di tempo, di quattro e cinque anni, su qualcosa, poi si verifica una rottura [nelle] immagini e devo seguirla... alla ricerca di un'estetica che sfrutti più efficacemente le sue emozioni. Allo stesso modo sosteneva il cambiamento anche nell’atto stesso di dipingere: quando dipingo non mi interessa una teoria che già esiste perché penso che ci sia un sacco di pittura morta, non interessante, sterile. Beh, non è molto eccitante, per l'amor del cielo. Uno vuole scoprire e ancora “nel momento in cui inizi a dire che questo non si può fare e quello deve essere fatto e non si può fare l'altra cosa, beh, è roba piuttosto noiosa e certamente non stai consentendo alcun tipo di scoperta. Stai tagliando rapidamente quella fonte. Quindi, secondo la Krasner, è necessario lasciarsi andare e così, parlando del suo atteggiamento nel lavoro diceva: Insisto per lasciarlo andare nel modo in cui sta andando invece di forzarlo. Le cose miracolose, le piaceva dire, accadono quando non sei rigido su un'idea fissa, prima di entrare nel tuo studio, su ciò che dovrebbe essere un dipinto ... perché questo sembra togliere tutta la gioia di vivere. #3 sulla rivisitazione dei propri fallimenti: leggendo le sue parole si direbbe che il cambiamento di cui la Krasner parla, quando dice: Per quanto riguarda me, penso che il cambiamento sia l'unica costante, non sia un processo lineare ma proceda come un pendolo e in effetti tornava spesso sul lavoro passato, reinventando progetti falliti sotto forma di nuove composizioni; raccontando di come è nata una serie di sue opere tra le più celebri dice: ho fatto una serie di disegni, li ho appuntati in tutto lo studio, un giorno sono entrata, li odiavo, li ho strappati tutti e li ho buttati sul pavimento. Quando sono tornata di nuovo in studio, diversi giorni dopo, [i disegni] messi in quel modo avevano un bell'aspetto … Questo sembra essere il mio processo di lavoro: torno costantemente a qualcosa che ho fatto prima, rifacendolo, facendo qualcos'altro e uscendo con un'altra immagine, più chiara possibile ... Distruggere per ricreare. In rete, naturalmente, si trova molto materiale. Ovviamente molto di più se opta per la lingua inglese. Personalmente trovo interessante spulciare qua e là, tra i libri o in rete o ascoltando qualcuno che parli dei processi creativi e produttivi - Faccio sempre una certa difficoltà a distinguere la creazione dalla produzione ma questo è un problema mio. Della breve sintesi che ho proposto sopra, nella fase attuale della mia vita di ceramista, mi interessa particolarmente il contenuto del blocco #2. Quel lasciarsi andare è centrale nella ricerca di un linguaggio personale, che superi le cose già viste e ci consenta di produrre una sintesi originale di ciò che ci circonda ma è anche il modo più rapido per arrivare al compimento di brutture vuote e inutili. Schifezze. Probabilmente c'entra il talento che se c'è ti accompagna nell'incoscienza del "gesto" ma, secondo me, c'è dentro anche quello che antichi insegnanti cinesi sintetizzavano così: Se aspirate a fare a meno del metodo, dovete imparare il metodo. Se aspirate alla facilità, dovete lavorare con accanimento. Se aspirate alla semplicità, dovete imparare a fondo la complessità.* Che, detto in modo più terra terra, secondo me vuol dire osservare, studiare e lavorare. Su ogni singola parte del processo produttivo in cui siamo coinvolti. Solo così si può sperare di assimilare il mondo circostante e al contempo acquisire gli strumenti idonei a tradurlo in pensieri, oggetti e opere. Mi rendo conto, è un concetto tanto banale quanto ovvio eppure ci sono momenti nel proprio rapporto con il lavoro nei quali si sente un impulso a cambiare passo; è come un richiamo irresistibile che ci rende insopportabile continuare a fare le cose che stiamo già facendo, nel modo in cui le abbiamo fatte finora. Momenti come quello in cui Lee Krasner stacca i suoi disegni dal muro, li straccia e li getta per terra. Il punto è che non sempre poi torni il giorno dopo e trovi per terra la risposta che cercavi per cambiare le cose. E' semplice, in certi momenti, se ti lasci andare, torni alle consuetudini e questo non va bene. Non in generale. Non va bene per me, adesso. Quindi mi sono messo di nuovo a osservare, a studiare e, un po', anche a lavorare. * Da: "Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape" LUNI EDITRICE |
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