Solo qualche giorno fa ho appreso della scomparsa di Phil Rogers. Lo considero uno dei miei maestri. Qui una piccola yunomi che feci qualche anno fa studiando il suo lavoro.
Mi piace ricordarlo con le sue parole riprese da una recente intervista: “I think it’s about what a potter injects into a piece. A lot of today’s boring, shallow, urban tablewares, usually in porcelain and with pale, uninteresting glazes, lack any sense of adventure. We potters have little to do these days other than express something in our work. People don’t NEED our pots; metal and plastic are cheaper and readily available. They buy them because they want to see an artistic expression, to feel a connection with the maker. They want to see that a potter has endeavoured to find a new avenue of exploration and succeeded by daring to fail. Safe, banal, boring work is better made in a factory and contributes little to our world of clay.”
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Nel suo piccolo manuale sulla tecnica del tornio, "Throwing Post", Phil Rogers dedica un capitolo sul progetto o, più in generale, sull'obiettivo che un ceramista si propone nel momento in cui siede al tornio. Parla della necessità di lavorare avendo il più possibile chiaro in mente cosa si vuole fare, di conoscere gli elementi di base che riguardano la ceramica funzionale, regole che magari si vogliono tradire ma che è necessario conoscere; dell'importanza di non imitare la produzione industriale. Spiega quanto aiuti avere l'abitudine di tenere un quaderno di schizzi (anche se non si è buoni disegnatori) dove appuntare idee, spunti ricavati da pezzi che ci piacciono o anche da forme naturali che incontriamo per caso. Infine parla dello stile personale e di quanto ognuno di noi, apprese le basi tecniche e studiato più possibile altri artisti e artigiani, sia in grado, quasi naturalmente, di tirare fuori anche solo imitando opere altrui. Basta un segno, l'attaccatura di un manico, un disegno appena schizzato con l'ossido o il tipo di smalto per rendere l'oggetto il nostro pezzo, quello che ci identifica. La sintesi di questo discorso, che a me pare illuminate nella sua semplicità credo di poterla estrarre da un'unica frase che, tradotta, dice più o meno questo: "Gli oggetti di ceramica fatti a mano devono essere letti come un libro e la storia che raccontano parla dei materiali di cui sono fatti e del carattere di chi li ha foggiati". Recentemente ho scritto un post su Anni Albers; sono solo un paio di citazioni che ho trovato in rete e che mi piaceva condividere con i lettori del blog.
In realtà si tratta di uno di quei personaggi attraverso i quali si può osservare un'intera fetta del XX secolo. Albers era la discendete di una ricca famiglia tedesca di religione ebraica. Si è formata alla Bauhaus negli anni venti. Sembra che volesse studiare altro, l'arte del vetro, per esempio, ma all'epoca, anche in luoghi culturalmente aperti e avanzati come la Bauhaus, interi campi di studio erano preclusi alle donne. Quindi è stata dirottata sulla tessitura. Ma, come spesso capita alle personalità dotate di talento, tenacia, intelligenza, i limiti diventano opportunità. I tessuti di Anni Albers sono spesso considerati alla stregua di opere pittoriche; la sua tecnica contiene qualcosa di architettonico e ingegneristico. La sua carriera culmina con una personale al MoMA. Si è andata a riprendere, in qualche modo, tutto ciò che le era stato negato. In rete c'è materiale sufficiente per chi volesse approfondire. Per me ne vale la pena. Qui aggiungo il fatto che suo marito era Josef Albers (Bottrop 1888 - New Haven 1976). Formatosi anche lui alla Bauhaus, scuola nella quale fu anche professore, fuggì negli Stati Uniti con la moglie nel 1933 a causa del nazismo. Pittore e designer ha concluso la sua carriera accademica come direttore del dipartimento di Grafica e Design dell'Università di Yale. E' il primo artista vivente a cui sia stata dedicata una retrospettiva al Metropolitan Museum of Art di New York, nel 1971. Ecco, queste brevi, sintetiche note biografiche sono la scusa per introdurre un testo di Josef: "Interazioni del colore - Esercizi per imparare a vedere". Si tratta di un testo datato 1963, sintesi del lavoro didattico di Josef Albers e proprio per questo ne mantiene la struttura: un vero e proprio manuale di esercizi ed esperimenti pratici volti a fornire gli elementi per comprendere i colori e le loro interazioni e, quindi, a sviluppare quella sensibilità per la luce e i colori che gli studi teorici sull'ottica e sui sistemi cromatici non possono fornire. A oltre cinquant'anni dalla sua pubblicazione il testo mantiene tutta la sua validità. Lee Krasner ovvero la riscoperta di un'artista del '900 Qualche tempo fa, l'8 ottobre, è uscito un articolo sul sito “Artsy” che raccoglie brani di diverse interviste rilasciate dalla pittrice espressionista Lee Krasner (1908-1984) negli ultimi venti anni di vita. Si parla dell'importanza di perseveranza, spontaneità, fallimento e rischio. L’articolo è strutturato in tre blocchi: #1 sulla necessità di lottare per imporsi e ottenere il proprio spazio. Nel suo caso gli ostacoli sono stati il sessismo imperante anche nel mondo dell’arte nella prima parte del XX secolo – il suo insegnante di disegno, per farle un “complimento”, le disse che le sue opere erano talmente belle che non si direbbe che siano state fatte da una donna – L’enorme ombra del marito, il pittore Jackson Pollock e la difficoltà che gli artisti astratti americani incontrarono nella prima metà del ‘900 nell’imporsi all’attenzione dei “guardiani del mondo dell'arte”. #2 sull’importanza del cambiamento o, come diceva lei stessa, della rottura. Mi ritrovo a lavorare per un certo periodo di tempo, di quattro e cinque anni, su qualcosa, poi si verifica una rottura [nelle] immagini e devo seguirla... alla ricerca di un'estetica che sfrutti più efficacemente le sue emozioni. Allo stesso modo sosteneva il cambiamento anche nell’atto stesso di dipingere: quando dipingo non mi interessa una teoria che già esiste perché penso che ci sia un sacco di pittura morta, non interessante, sterile. Beh, non è molto eccitante, per l'amor del cielo. Uno vuole scoprire e ancora “nel momento in cui inizi a dire che questo non si può fare e quello deve essere fatto e non si può fare l'altra cosa, beh, è roba piuttosto noiosa e certamente non stai consentendo alcun tipo di scoperta. Stai tagliando rapidamente quella fonte. Quindi, secondo la Krasner, è necessario lasciarsi andare e così, parlando del suo atteggiamento nel lavoro diceva: Insisto per lasciarlo andare nel modo in cui sta andando invece di forzarlo. Le cose miracolose, le piaceva dire, accadono quando non sei rigido su un'idea fissa, prima di entrare nel tuo studio, su ciò che dovrebbe essere un dipinto ... perché questo sembra togliere tutta la gioia di vivere. #3 sulla rivisitazione dei propri fallimenti: leggendo le sue parole si direbbe che il cambiamento di cui la Krasner parla, quando dice: Per quanto riguarda me, penso che il cambiamento sia l'unica costante, non sia un processo lineare ma proceda come un pendolo e in effetti tornava spesso sul lavoro passato, reinventando progetti falliti sotto forma di nuove composizioni; raccontando di come è nata una serie di sue opere tra le più celebri dice: ho fatto una serie di disegni, li ho appuntati in tutto lo studio, un giorno sono entrata, li odiavo, li ho strappati tutti e li ho buttati sul pavimento. Quando sono tornata di nuovo in studio, diversi giorni dopo, [i disegni] messi in quel modo avevano un bell'aspetto … Questo sembra essere il mio processo di lavoro: torno costantemente a qualcosa che ho fatto prima, rifacendolo, facendo qualcos'altro e uscendo con un'altra immagine, più chiara possibile ... Distruggere per ricreare. In rete, naturalmente, si trova molto materiale. Ovviamente molto di più se opta per la lingua inglese. Personalmente trovo interessante spulciare qua e là, tra i libri o in rete o ascoltando qualcuno che parli dei processi creativi e produttivi - Faccio sempre una certa difficoltà a distinguere la creazione dalla produzione ma questo è un problema mio. Della breve sintesi che ho proposto sopra, nella fase attuale della mia vita di ceramista, mi interessa particolarmente il contenuto del blocco #2. Quel lasciarsi andare è centrale nella ricerca di un linguaggio personale, che superi le cose già viste e ci consenta di produrre una sintesi originale di ciò che ci circonda ma è anche il modo più rapido per arrivare al compimento di brutture vuote e inutili. Schifezze. Probabilmente c'entra il talento che se c'è ti accompagna nell'incoscienza del "gesto" ma, secondo me, c'è dentro anche quello che antichi insegnanti cinesi sintetizzavano così: Se aspirate a fare a meno del metodo, dovete imparare il metodo. Se aspirate alla facilità, dovete lavorare con accanimento. Se aspirate alla semplicità, dovete imparare a fondo la complessità.* Che, detto in modo più terra terra, secondo me vuol dire osservare, studiare e lavorare. Su ogni singola parte del processo produttivo in cui siamo coinvolti. Solo così si può sperare di assimilare il mondo circostante e al contempo acquisire gli strumenti idonei a tradurlo in pensieri, oggetti e opere. Mi rendo conto, è un concetto tanto banale quanto ovvio eppure ci sono momenti nel proprio rapporto con il lavoro nei quali si sente un impulso a cambiare passo; è come un richiamo irresistibile che ci rende insopportabile continuare a fare le cose che stiamo già facendo, nel modo in cui le abbiamo fatte finora. Momenti come quello in cui Lee Krasner stacca i suoi disegni dal muro, li straccia e li getta per terra. Il punto è che non sempre poi torni il giorno dopo e trovi per terra la risposta che cercavi per cambiare le cose. E' semplice, in certi momenti, se ti lasci andare, torni alle consuetudini e questo non va bene. Non in generale. Non va bene per me, adesso. Quindi mi sono messo di nuovo a osservare, a studiare e, un po', anche a lavorare. * Da: "Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape" LUNI EDITRICE Di Anni Albers (Berlino 1899 – Orange 1994), celebre artista tessile, c’è una frase veramente molto citata in giro per la rete; ripresa da “Weaving in a College” la riporto in lingua originale: “Being creative is not so much the desire to do something as the listening to that which wants to be done: the dictation of the materials”. A questa ne aggiungo un’altra, che ho scoperto più di recente e che voglio condividere perché magari qualcun altro può provare la curiosità di conoscere le opere e la vita di questo straordinario personaggio del ‘900.
In rete c’è del materiale per chi volesse approfondire. Ovviamente il materiale in lingua inglese è molto di più, in quantità e qualità, anche grazie al rinnovato interesse prodotto da una mostra dei suoi lavori inaugurata giusto un anno fa alla Tate Modern di Londra e durata fino alla fine di gennaio scorso.
In montagna un giorno d’estate
Agito dolcemente un ventaglio di piume bianche, Seduto, con la camicia aperta, nel verde di un bosco. Mi tolgo il berretto e lo appendo a una pietra sporgente; Aghi di pino portati da un refolo di vento picchiettano sulla mia testa nuda. Li Bai (701-762 – noto anche come Li Po) poeta cinese di epoca Tang Gently I stir a white feather fan, With open shirt sitting in a green wood. I take off my cap and hang it on a jutting stone; A wind from the pine-trees trickles on my bare head. Di questa poesia ho solo la versione in inglese; del resto non saprei tradurre il cinese. Della traduzione in inglese, però, credo che ci sia da fidarsi per la vecchia reciproca consuetudine che le due lingue hanno sviluppato negli ultimi secoli. Meno affidabile la mia traduzione in italiano. Fatta la premessa, restano le parole di questo straordinario poeta cinese. In queste giornate calde, provo, nel leggerle, un certo sollievo. ... la regola 8,
... ognuno avrà la sua preferita o quella che più di altre stimola una riflessione o provoca un imbarazzo; la mia è la regola 8 Credo di aver già scritto qualcosa in merito; ci torno perché è una cosa di cui non riesco a liberarmi. Evidentemente continuo a sbagliare; oppure non vedo la cosa nel verso giusto. Ritrovo due post Errori e Errori 2 rispettivamente del 5 agosto e del 26 novembre 2016. Riprovo partendo da John Cage. Non sono un conoscitore dell'opera musicale e filosofica di Cage, ma casualmente, di recente, mi sono imbattuto in alcune cose che lo riguardano; potenza di internet ... e della casualità. La prima cosa che ho trovato - e che ho già riportato qualche post fa - è stata: Instead of self-expression, I'm involved in self-alteration. lasciamola stare lì. Quindi torno sul concetto di errore. Nel progetto dell'ultimo lavoro avevo appuntato quest'idea: L'ERRORE Quando tutto è sotto controllo; quando il disegno è conforme alle aspettative (esattezza); quando c'è la consapevolezza (tecnica) della manifattura; allora l'errore - di fatto - conferisce all'oggetto la sua personalità - in un certo senso il suo nome, la sua bellezza. L'errore deve presentarsi in un contesto di regolarità (retta via) e non deve essere previsto ma risultare naturale (o tale deve apparire). dal Vocabolario on-line Treccani: erróre s. m. [dal lat. error -oris, der. di errare «vagare; sbagliare»]. – 1. letter. L’andar vagando, peregrinazione, vagabondaggio: [...] 2. Lo sviarsi, l’uscire dalla via retta, spec. in senso fig., l’atto e l’effetto di allontanarsi, col pensiero o con l’azione o altrimenti, dal bene, dal vero, dal conveniente. In partic.: a. Deviazione morale: [...] b. Fallo, colpa, peccato: [...] c. Credenza errata in materia di fede religiosa: [...] d. Opinione, affermazione erronea, giudizio contrario al vero: [...] e. di ragionamento; [...] f. Quanto contrasta con le regole di una tecnica o scienza, o manca di correttezza, di esattezza: [...] g. Azione inopportuna, svantaggiosa: [...] 3. [...] Le foto di queste mattonelle servono a spiegare meglio. Le mattonelle appartengono alla nuova serie su cui stiamo lavorando con PoPLab. Ho già presentato la prima serie ma di questo parlerò un'altra volta. Ora mostro queste due perché sono frutto di un errore. Le avevo caricate nel forno sotto le ciotole, quelle azzurre Jun del lavoro "Ciotole di riso per Momo". L'errore consiste nelle colature eccessive dello smalto Jun. Gocce di smalto sono cadute sulle piastrelle. Tecnicamente la colatura dello smalto è in contrasto con le regole della tecnica (di smaltatura e di cottura, in questo caso) e, pertanto, manca di correttezza, di esattezza. Le considerazioni sugli effetti di tale errore sono, ovviamente, del tutto soggettive.
Qui voglio, però, riportare alcuni brani di un'intervista di Laurie Anderson a John Cage. L'ntervista è pubblicata su tricycle.org ... C: Yes, instead of wiping out what I didn’t like, I tried to change myself so that I could use it. ... I use chance operations instead of operating according to my likes and dislikes. I use my work to change myself and I accept what the chance operations say. ... A: In using chance operations, did you ever feel that something didn’t work as well as you wanted? C: No. In such circumstances I thought the thing that needs changing is me — you know — the thinking through. If it was something I didn’t like, it was clearly a situation in which I could change toward the liking rather than getting rid of it. ... A: So you did, in fact, make a kind of judgment on yourself. C: Yes, instead of wiping out what I didn’t like, I tried to change myself so that I could use it. E' chiaro che estrapolare brutalmente dei brani da un'intervista ne deforma il senso ma fa parte del gioco. Comunque leggendo tutti l'intervista direi che non ci si allontana di molto da quello che passa qui. L'importante è tener conto del fatto che Cage usava intenzionalmente il caso nel proprio lavoro. Non è il mio caso. Però, la mia tendenza alla ripetizione di certi errori mi insospettisce. Quindi, la mia personale sintesi dei concetti assemblati qui sopra è che talvolta il caso e l'errore si sovrappongono. Oppure che attraverso un errore ripetuto si sta inconsciamente cercando qualcosa. A questo punto l'errore tecnico, rimaneggiato dal caso, acquista un valore se si è in grado di operare una necessaria trasformazione di se stessi. In altre parole, se si è in grado di non rifiutare ciò che non ci piace, perché casualmente errato, cercando di cambiare se stessi in modo che lo si possa accettare. Lo so, il ceramista non ce la fa ad accettare questo; l'artigiano non può farlo ma l'uomo è indotto a riflettere: Instead of self-expression, I'm involved in self-alteration. L'ultimo numero di Nuovo e Utile - teorie e pratiche della creatività sito di Annamaria Testa, pubblicato il 18 settembre scorso, propone una riflessione sul valore del lavoro ben fatto.
L'articolo prende spunto dal Manifesto del Lavoro Ben Fatto scritto dal sociologo Vincenzo Moretti. Ecco alcuni passi del Manifesto, riportati dalla Testa nel suo articolo: qualsiasi lavoro, se lo fai bene, ha un senso; dove tieni la mano devi tenere la testa, dove tieni la testa devi tenere il cuore; ciò che va quasi bene non va bene. Individuando la necessità di eseguire per bene qualsiasi lavoro nella motivazione interna, o intrinseca, spiega: In estrema sintesi, la motivazione interna riguarda il fare qualcosa per il piacere di saperlo fare, per il gusto di farlo e con l’orgoglio di averlo fatto al meglio, e non solo per ricevere un premio o una ricompensa. La motivazione interna è connessa con un maggior livello di creatività, di autostima e di gratificazione. L'articolo e poi tutto il Manifesto, hanno il pregio di stimolare la riflessione sulle intenzioni che ci animano quando intraprendiamo qualcosa, qualunque lavoro. Questo post, perciò, oltre a segnalare articolo e Manifesto a chi ne fosse interessato, vale anche come ringraziamento agli autori. Honor your mistake as hidden intention Brian Eno Data la rilevanza del tema nel mio lavoro, sia in relazione alle reali intenzioni nascoste in certi errori, sia per le occasionali connessioni alla serendipità, forse dovrei creare nel blog una nuova categoria: "Errori" oppure "Incidenti"... o forse no.
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Ottobre 2023
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