Venerdì c'è l'inaugurazione dell'esposizione nella vetrina del ME.SIA S.PACE di una mia opera.
Per chi volesse incontrarmi, sarò lì dalle 18:00.
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Solo qualche giorno fa ho appreso della scomparsa di Phil Rogers. Lo considero uno dei miei maestri. Qui una piccola yunomi che feci qualche anno fa studiando il suo lavoro.
Mi piace ricordarlo con le sue parole riprese da una recente intervista: “I think it’s about what a potter injects into a piece. A lot of today’s boring, shallow, urban tablewares, usually in porcelain and with pale, uninteresting glazes, lack any sense of adventure. We potters have little to do these days other than express something in our work. People don’t NEED our pots; metal and plastic are cheaper and readily available. They buy them because they want to see an artistic expression, to feel a connection with the maker. They want to see that a potter has endeavoured to find a new avenue of exploration and succeeded by daring to fail. Safe, banal, boring work is better made in a factory and contributes little to our world of clay.” A quanto pare la ceramica mareroncina non piace.
Ho portato questa ciotola all'ultimo mercato nel quale ho esposto le mie cose. Naturalmente non è stata degnata di uno sguardo eppure ne è passata gente, molti si sono fermati nel mio stand e si sono lasciati attrarre dai pezzi con smalti bianchi come glassa (nuka); quasi tutti hanno apprezzato gli ineffabili azzurri (Jun); anche i butterati bianchi e rosso ruggine (shino) e gli aridi asciutti e ruvidi (arabo) hanno avuto attenzione. Diverse ciotole e vari vasetti sono stati acquistati ma lei non è stata degnata nemmeno di un'occhiata; nessuno l'ha presa e rigirata tra le mani e questo perché a uno sguardo superficiale appare marroncina, credo. Catalogato tra i marroncini, un pezzo di ceramica è praticamente spacciato, soprattutto dal punto di vista commerciale. Però lo smalto sottile, tipo shino, che riveste la questa ciotola, osservato con un minimo di attenzione rivela una gamma di colori più ricca di quanto ci si aspetti a prima vista. Insomma, al solito, le apparenze ingannano. Dal Vocabolario on line Treccani
riprodurre v. tr. [comp. di ri- e produrre] (coniug. come produrre). – 1. Produrre di nuovo quanto già era stato o si era prodotto: ... 2. a. Produrre, ricavare da un originale o da un prototipo uno o più esemplari più o meno esattamente corrispondenti ... rielaborare v. tr. [comp. di ri- e elaborare] (io rielàboro, ecc.). – Elaborare di nuovo, con criterî e fini diversi ... Dopo tanti anni, il processo di apprendimento e di crescita continua a essere la successione delle due azioni definite dai verbi riprodurre e rielaborare. Osservare il lavoro di ceramisti antichi e contemporanei. Riprodurne (o tentare di farlo) il loro lavoro per coglierne l'essenza per poi rielaborarlo secondo il mio stile. Sempre più spesso, ultimamente, la fase di riproduzione avviene solo su carta ma non smetto di dedicare tempo a questo aspetto del processo. Soprattutto mi piace ancora farlo. Per esempio la ceramica etrusca ... chissà, l'anno prossimo, magari. Intanto studio BoccaneraQuasi uno shino classico; tre quarti di feldspati e felspatoidi e un quarto di argille. In più c'è l'aggiunta di carbonato di sodio; e quest'ultimo è il responsabile dell'orlo nero che borda la bocca della ciotola. Il carbon trap, un effetto tipico degli shino di scuola statunitense. L'effetto è limitato e complessivamente lo smalto non rientra a pieno titolo nella categoria degli shino detti, appunto, carbon trap. Il carbon trap (trappola del carbonio) si produce per la presenza del carbonato di sodio che anticipa la fusione dello smalto rispetto a quanto non avvenga normalmente alle alte temperature. Lo smalto inizia a+'098fondere già durante il picco della fase di riduzione, che inizia intorno ai 970°C e prosegue fino a oltre i 1000°C per poi iniziare a decrescere all'aumentare della temperatura. Poiché durante la fase di forte riduzione si producono fumi all'interno del forno, fumi che contengono carbonio, questi vengono catturati dalla massa fondente dello smalto dove restano intrappolati conferendo la colorazione grigio/nerastra. La spiegazione è estremamente semplicistica ma spero che il concetto sia chiaro. Gli smalti definiti a carbon trap contengono quantità elevate di carbonato di sodio, normalmente non presentano le smagliature degli shino tradizionali (crawling) ma sono lisci e lucidi e presentano macchie più o meno estese che virano sui toni del grigio e del nero. Sono stati sviluppati negli Stati Uniti negli anni '60. Qui, invece, ho riprodotto uno shino tradizionale con i suoi "difetti" tipici: - le smagliature (in inglese crawling) e le puntinature (pineholing); - i salti di colore dal bianco al ruggine al rosso, sono funzione dello spessore dello smalto. Il rosso è dato dalla cristallizzazione dell'ossido di ferro presente sul corpo del pezzo (e non nello smalto). Gli originali giapponesi, e comunque gli shino che sono sottoposti a cotture estremamente lunghe, fanno emergere la colorazione rossa anche in punti dove lo smalto è piuttosto spesso. MacchiaQuesta ciotola presenta una delle formulazioni più semplici dello smalto shino, composta solo da nefelina e ball clay.
Valgono anche qui le stesse considerazioni sui difetti tipici dello smalto shino e quelle sui colori di cui ho parlato prima. In questa versione dello shino non c'è carbonato di sodio, quindi niente chiazze grigio/nere. In più su questa chawan, ho aggiunto uno schizzo di ossido di ferro. Un celadon del Monte CiminoSmalto di cenere di legna di pino (lavata); roccia del Cimino (probabilmente una trachite); quarzo.
Il colore, tenue, è quello del celadon. Un tenero celadon che ricava l'ossido di ferro (agente colorante) sia dalla roccia che dalla cenere (la legna di pino è tra quelle che contengono più ossido di ferro). Le colature sono quelle tipiche degli smalti di cenere. Il quarzo, un 20% circa, l'ho aggiunto semplicemente per mancanza di coraggio. Lo dico perché adesso sto cercando di ricordare, senza riuscirci, il motivo che mi ha impedito di utilizzare una semplice formula 50/50 roccia-cenere; allora devo pensare che avessi bisogno di inserire il materiale nuovo (la trachite) tra almeno due materiali conosciuti (cenere e quarzo). Questa scelta, in qualche modo, deve avermi rassicurato. Naturalmente tutto ciò accade per la pigrizia; altrimenti avrei preparato i provini per una linear blend (una serie di miscele variabili tra due materiali) e, successivamente, per testare una composizione a tre materiali. Insomma quello che si deve fare in caso di sperimentazione di un muovo materiale. Ok, allora farò così. Intanto, per essere chiari, trovo questa ciotola bellissima. Due pezzi simili. Ne avevo già fatto uno di questo genere tempo fa ma un giorno, esposto ad un mercato, lo hanno fatto cadere; ci sono rimasto male e ho voluto rifarlo. Già che c'ero l'ho riprodotto in due versioni. Le due ciotole rappresentano una delle più sincere espressioni del mio modo di fare ceramica. Ciotola ALa prima è più o meno una replica dell'originale, per quanto sia possibile riprodurre a memoria un oggetto volutamente irregolare. Si tratta di una grossa ciotola bruno-nerastra, ruvida e slabbrata, decorata all'interno da una pennellata di ingobbio bianco che, all'esterno, produce solo colature. All'interno ci sono anche macchie giallastre. Lo smalto, sottilissimo, impercettibile, è quello che chiamo "corano" ed è composto semplicemente da cenere di legna, feldspato e quarzo. Ciotola BNella seconda versione ho sostituito l'ingobbio tradizionale con porcellana. Si tratta di una modalità nuova, per me, che ho utilizzato anche in un vaso della stessa infornata (vedi foto del 27 agosto 2020 sulla pagina Instagram di Cono9 "amarvicio"). Qui lo smalto è uno Jun dato sempre piuttosto sottile, non sottilissimo, ma abbastanza per restare trasparente e non riuscire a sviluppare il suo tipico colore azzurro, ad eccezione di un pallido alone dove un po' meno sottile (temo che in foto questo effetto cromatico non appaia).
Il ritiro in cottura della porcellana, decisamente maggiore rispetto a quello dell'argilla del corpo, produce una marcata screpolatura. Quasi una pelle squamosa. Il 3 e 4 agosto, di lunedì e martedì, ho cotto; era tanto che non accendevo il forno; tutt'intorno è cresciuta erba alta e una piccola edera spuntava dai mattoni della base e quando l'ho aperto per caricarlo, dentro c'era un nido di vespe vuoto, forse risalente all'estate scorsa, Il tempo fa queste cose mentre noi siamo distratti. Insomma, ho fatto un forno; un forno pieno solo di pezzi rivestiti di smalto shino, la versione occidentale dello smalto shino.
Quindi, ho scelto quattro diverse ricette, tutte nell'area del traditional shino, escludendo per il momento altre tipologie come il cosiddetto carbon trap o l'high alumina. Ovviamente per traditional shino si intende sempre la versione occidentale dell'originale giapponese. Nella scelta, fatta tra le decine di ricette proposte da vari ceramisti e studiosi, ho cercato di cogliere i diversi aspetti che mi interessava studiare: - avere una base semplice; - valutare ricette più complesse; - studiare gli effetti dei diversi tipi di feldspato (feldspato Na, sienite nefelina, spodumene)i); - studiare gli effetti di viveri tipi di argilla (ball clay, caolino, terracotta); - verificare le interazioni con diversi tipi e colori del corpo sottostante; Infine, ho condotto la cottura secondo una specifica scheda, peculiare per questo tipo di smalto, che differisce da quella che adotto solitamente. Un passo alla volta cercherò, nei prossimi post di raccontare cosa è uscito da questo forno. Intanto, le foto di alcuni dei pezzi di questa infornata sono pubblicate sul profilo Instagram di Cono9 (profilo gestito, come detto in precedente post, da Amarvicio). Sono più di sue mesi che non scrivo ma ho lavorato;
ho prodotto pezzi nuovi, oltre alle mie ciotole e ai piatti, ho realizzato vasi e bottiglie di diverse dimensioni, ho fatto delle tazzine di porcellana a colaggio, ho iniziato a utilizzare la porcellana come ingobbio sul grès; mi sono divertito, insomma. Ho studiato i lavori di Katherine Pleydell-Bouverie, di Daniel Rhodes, di Lisa Hammond, di Rosanjin e Nik Collins e Giorgio Morandi e Anne Franchetti e altri che ora non mi vengono in mente - mi perdoneranno e li citerò un'altra volta.. Ho osservato, disegnato, lavorato al tornio; il foglio di disegni che ho pubblicato nel post precedente, per esempio, contiene diversi di questi pezzi, altri sono schizzati su altri fogli e mi piace vedere il processo nelle diverse fasi perché così tutto sembra avere un senso. Non so ... non sono sicuro di riuscire a trasmettere cosa intendo; è qualcosa di simile alle tappe di un viaggio e forse, proprio per questo, ha un senso solo per me. Chissà ... Comunque non sono ancora la capolinea, adesso ci sono la smaltatura e la cottura, anzi, le cotture, perché per cuocere tutto ci vorranno tre infornate, credo. E almeno una di queste sarà, per me, una vera novità, una scheda di cottura nuova per smalti nuovi - ne parlerò. Devo prepararmi agli inevitabili fallimenti, soprattutto per gli smalti nuovi; è un passaggio obbligato, è la sperimentazione ma mi piace e non conosco altro maniera per arrivare a comprendere le cose che mi interessano. Quindi, si, ho scritto poco, ma ho lavorato e adesso ho molto materiale di cui parlare, indipendentemente da come verranno fuori i nuovi pezzi. Quasi indipendentemente ... Per fare bene un pezzo devo sapere tutto fin dall'inizio.
Quando mi siedo al tornio con una palla d'argilla in mano devo sapere cosa sto facendo; la funzione dell'oggetto, certo; la sua dimensione e la sua forma, in modo più possibile dettagliato; se si tratta di una ciotola, ad esempio, devo avere già in mente se avrà le falde tese o curve e se il bordo avrà un garbo verso l'esterno o resterà rigido oppure se andrà a chiudere verso l'interno e poi c'è da definire l'attacco al piede e, ovviamente, come sarà fatto il piede stesso. Ma non basta aver chiari gli aspetti geometrici e formali, ho bisogno di prevedere come sarà rivestito il pezzo, l'eventuale ingobbio, lo smalto o gli smalti, e se avrà o meno dei segni a ossido. Insomma tutto. Devo poter immaginare il pezzo finito. Più la visione è chiara e più probabilità ci sono che il lavoro arrivi in fondo fatto bene. Si chiama progetto. |
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